Alberico - un'intervista a cura di Giada Peterle


Rocco Lombardi torna a pubblicare con Giuda Edizioni. Nel 2011 usciva infatti “Campana”, biografia del poeta oscuro Dino Campana scritta e disegnata insieme a Simone Lucciola, un'opera complessa e completa anche dal punto di vista della ricerca filologica svolta dagli autori prima della stesura, capace di riprodurre nello stile e nell'alternanza dei tratti dei due autori l'oscillazione psicologica che caratterizzò il genio del poeta e il destino dell'uomo Campana, e di cui potete leggere una recensione e un'intervista a 3 voci, condotte sempre dalla sottoscritta.Rocco Lombardi torna però da solo nel 2013 pubblicando “Alberico”, un nuovo fumetto il cui valore è stato premiato con il prestigioso Premio Boscarato 2013 al TCBF. La ricerca stilistica inesauribile, l'originalità del tratto e del soggetto, il coraggio di alcune scelte stilistiche che contribuiscono a fare di “Alberico” un fumetto atipico, vicino al linguaggio mitologico e senza tempo della favola archetipica, sono solo alcuni degli spunti da cui nasce questa chiacchierata. Lasciamo allora che Rocco ci racconti anche di tutto quello che di “vero”, di “reale” si cela dietro al suo personaggio, così come accade per la nascita di ogni mito.
Ci sono molte scelte che rendono “Alberico” un fumetto atipico, un'opera unica nel suo genere. Comincerei dalle immagini dalla tecnica con cui hai realizzato le tavole, scegliendo un procedimento che sembra ribaltare i canoni, partendo invece che dalla pagina bianca da tavole completamente ricoperte dal colore nero. Innanzitutto come sei arrivato a scegliere e prediligere questa tecnica, attraverso quali sperimentazioni artistiche?
Da quando disegno ho avuto il pallino di provare le tecniche più disparate, nell'illusione che la tecnica potesse determinare la qualità del risultato. Imparare a disegnare non può non essere alla base, la tecnica si apprende parallelamente. Quando qualche anno fa con Simone Lucciola abbiamo messo in cantiere “Campana” ho sentito che avrei dovuto tirare fuori il disegno dal nero, ed allora ho provato vari supporti che si potessero impregnare e allo stesso tempo raschiare con immediatezza. Le prime tavole erano degli acetati stampati con la stampante a getto d'inchiostro, ma ben presto chi mi faceva queste stampe non ha voluto più saperne, allora ho provato lo scratchboard: poco reperibile, molto costoso e finiva rovinato in breve. Allora ho cominciato a fare da me i supporti: acetato, nero acrilico e giù di taglierino per disegnare.
Partendo, come dicevamo, da una tavola completamente nera è come se invece di iniziare dal “vuoto” di un foglio bianco che pian piano si riempie con i segni tracciati dalla china, tu partissi invece da una tavola in cui “c'è già tutto”, in cui i segni invece di disegnare scavano in questo tutto per estrarre la storia che in quel momento vuoi raccontare, incidendo là dove possono emergere i tratti che meglio possono raccontarla, come un demiurgo che modella una materia già esistente. Oltre alla carica espressiva che l'incisione dà, cosa significa per te cominciare dal “tutto pieno” del nero invece che dalla pagina bianca?
Con il tempo ho capito che questa tecnica è collegata a una vera e propria ricerca della luce. Mi spiego meglio: tendenzialmente sono uno che vede tutto nero. Ed è quindi da lì che devo partire: raschiare, togliere, trovare la luce. La materia base è nera e devo lottarci per trovare un equilibrio.
Queste tue scelte hanno trovato di recente, come dicevamo nell'introduzione, un riconoscimento importante al Treviso Comic Book Festival, dove ti è stato conferito il Premio Boscarato 2013 come “Miglior Disegnatore Italiano”. L'originalità delle tue tavole non sta infatti soltanto nella tecnica con cui le realizzi, ma anche nella grande potenza espressiva, nella tua capacità di creare con pochi elementi un'intera ambientazione, ma anche l'atmosfera che la caratterizza. Paradossalmente la potenza del tuo segno sta anche in ciò che esso evoca, oltre che in quello che raffigura. Cosa ne pensi? Credi sia questa, tra le altre, una delle caratteristiche che ti hanno portato a vincere questo premio, o c'è qualcos'altro che secondo te andrebbe messo in primo piano?
Credo che la qualità del mio segno evochi una forte manualità collegata al nostro istinto di fare, di essere al mondo come creature pratiche, che devono usare le mani. I miei disegni a tratti ricordano le xilografie, una tecnica che richiede molto lavoro su una materia viva: il legno.
Hai opposto in “Alberico” due immagini simboliche molto forti: da un lato quella della città, da sempre allegoria dell'uomo e del suo progredire tecnico, così come dei suoi vizi ed eccessi (e non serve a questo proposito citare alcun riferimento tanti sono quelli che s'accavallano, lungo la storia di questa parola, dalle origini dell'uomo ai giorni nostri); dall'altro la quercia, forza naturale secolare che resiste immobile ed assiste inerte agli stravolgimenti che la circondano.
Si canta così la lotta atavica tra uomo e natura attraverso i simboli. Può quindi anche un'immagine, attraverso il simbolo, diventare mito, nel senso di racconto archetipico? E se è proprio questo che ricercavi, cosa può dire di più un mito per immagini di uno a parole?
Le immagini più che le parole attraversano il tempo. Le testimonianze disegnate lasciate sulle pareti rocciose dagli uomini e le donne dell'età della pietra mantengono intatta la loro urgenza comunicativa. Il fumetto ha elaborato in poco più di cento anni un linguaggio che potrà essere comprensibile ancora tra qualche migliaio di anni, ammesso che restino un'umanità e un ambiente che possa ospitare dei segni. Questi segni faranno tranquillamente a meno delle parole. I miei ultrapronipoti potranno leggere ancora “Alberico”, magari ancora su carta o su qualche altra superficie più durevole che mi preoccuperò di sperimentare.
Questo ci ricollega all'altra scelta forte che hai abbracciato in “Alberico”, quella di raccontare tutto in un fumetto privo di parole, in cui le immagini, siano esse a tutta pagina o strutturate nelle più classiche sequenze a quattro vignette tipiche del fumetto, sono le uniche protagoniste della narrazione.
Se “Alberico” cela, abbiamo detto, un tema antico come l'umanità, la scelta di lasciare senza parole il racconto serve allora a far sì che il suo linguaggio sia ancora più universale? Perché una storia che non ha tempo, quella della lotta tra uomo e natura, resti anche senza luogo geografico, valicando i confini posti dalla lingua per arrivare diretta, con la forza delle immagini, ovunque, senza bisogno di essere tradotta?
Credo che sia puro istinto comunicare disegnando, la scrittura comporta ben altre complicazioni. Alberico in prima stesura conteneva un testo e doveva essere destinato ad un pubblico di bambini e adolescenti, c'erano anche i colori e nessun graffio. Un editore giudicò le immagini troppo oscure per il pubblico a cui dovevano essere destinate. Infine Alberico è stato pubblicato in bianco e nero e senza parole e con mia grande sorpresa sembra affascinare anche i più piccoli.
In un'atmosfera che lascia intendere la tragedia che come una nube lentamente sta arrivando a divorare la nostra civiltà al suono dei tamburi di Alberico, la visione cupa della città, presagio dell'apocalisse imminente, si contrappone però alla luminosità della quercia. Quella stessa quercia, sfruttata, divorata dalla speculazione edilizia, dalle gru che si stagliano tra i suoi rami come nuove bestie d'acciaio senz'anima, venute a riempire i vuoti lasciati dagli animali in fuga, a un certo punto crolla. Eppure il tuo racconto lascia aperta la speranza, nuove querce nascono dalle ceneri, trasformando quello che fino a quel momento pareva un lungo monito in una speranza.
In questo delicato equilibrio, tra apocalisse e rinascita, qual è secondo te l'elemento dominante, nella storia di Alberico, ma anche nella nostra stessa contemporaneità?
Il personaggio Alberico è un bambino, il piccolo custode di un'immensa creatura vegetale, è in collegamento con gli elementi, con tutta la fauna che è costretta ad abbandonare l'unico luogo risparmiato dalla città-pianeta. Il suo tambureggiare, simulacro del picchettare del picchio di cui imita le sembianze, è un monito limpido e costante alla sorda città che lambisce l'albero: un solo grande totem superstite della natura selvatica, assediata e sopraffatta da un istinto di sopravvivenza che ha reciso ogni legame con la terra. L'albero, architrave necessario del nostro stesso dna.
“Alberico” ha la natura di una favola archetipica che permette a ognuno di noi di ritrovarsi in qualche modo nelle maglie del suo racconto, abbastanza ampie perché ogni singolarità ritrovi in essa ciò che ha in sé di universale. La dedica in esergo lascia intuire che anche tra te ed Alberico, in fondo, ci sia qualcosa in comune, una connessione forte.
Ti chiederei allora che cosa c'è di “vero” in questo racconto per immagini, che cosa dell'attualità può averti ispirato, se ci sono fatti della storia recente che tenevi nella mente e che si rispecchiano nelle tavole di “Alberico”, così come se ci sono storie a cui hai assistito che ritornano nella lotta del protagonista?
La grande quercia citata nelle parole che aprono il libro l'ho arrampicata quando avevo circa dieci anni. Volevo costruirci sopra una stazione radio. Di lì a poco i lavori di scavo per la costruzione di una casa compromisero le sue radici e la sua stabilità, il suo tronco fu sezionato in tanti grandi dischi che alimentarono un camino per anni. Nel frattempo tante beghe impedirono di ultimare la costruzione della casa ed un'altra costruita lì di fianco cominciò a fessurarsi diventando inagibile. Non ho mai pensato che si trattasse di una maledizione, ma non ho mai smesso di mettere in relazione le due cose. Per inciso queste case appartengono alla mia famiglia.
Il messaggio di quest'opera non sembra potersi quindi esaurire nelle pagine del fumetto, ma pare proiettarsi verso l'esterno. È giusto pensare che nasca da un'urgenza che senti come autore, urgenza espressiva e narrativa quindi, ma anche e soprattutto come uomo, quindi anche politica e sociale in un certo qual modo?
Sicuramente. Da anni la mia attenzione ricade sul rapporto tra l'umanità e il pianeta, le ricadute della tecnologia sulla nostra vita e la nostra coscienza, l'allontanamento dal nostro corpo, l'opacizzarsi dei nostri sensi. Mi chiedo se tutto sia una conseguenza “naturale” dell'evoluzione o se abbiamo imboccato un vicolo cieco. Abbiamo paura di cambiare, di essere meno umani e diventare qualcos'altro o l'istinto ancestrale ancora sensibile che ci collega alla terra rimane un punto di riferimento fondamentale? La quercia tagliata di cui parlavo prima mi dice ora a distanza di anni che si poteva fare qualcosa di diverso all'epoca e che è necessario farlo ora.
E parlando di fumetto che esce dai propri confini per incontrare la realtà, tu sei stato poco fa tra i 99 autori ospiti al Komikazen 2013, uno dei pochi festival che a livello internazionale siano completamente dedicati al “fumetto di realtà”. Questo lascia sicuramente intendere il tuo rapporto con l'arte sequenziale, ma sarebbe bello cogliere l'occasione di questa intervista per parlarne un po' insieme.
Partendo sempre da “Alberico”, come racconto in cui il fumetto si fa linguaggio universale, perché arriva a tutti, ma anche perché parla di un tema che a tutti appartiene, vorrei parlare con te di che cosa c'è appunto di universale e di accessibile nel fumetto, di che cosa secondo te, come autore e come lettore, lo rende un linguaggio unico, dotato di un potere espressivo proprio e originale per poi sapere se secondo te questo gli permette di “combattere”, come Alberico, lotte non ancora combattute, di percorrere vie ancora poco calcate.
Il Komikazen di quest'anno ha sottolineato con un'azione performativa la difficile situazione di chi opera nel fumetto, situazione che aldilà del momento di crisi ha radici in momenti meno difficili di questo. Delle potenzialità del fumetto e di quello senza parole ne abbiamo già parlato più sopra, rispetto alle sue possibilità di combattere posso dire che grazie a delle esperienze recenti sono molto ottimista. L'esperienza di cui parlo è quella di “Nomadisegni”, progetto che conMarina Girardi abbiamo costruito in questi ultimi due anni. Nei nostri viaggi attraverso l'Italia minore, quella dei paesi, delle periferie sperdute, realizziamo laboratori di disegno e fumetto con chi vive in questi luoghi e chi si trova di passaggio. Spingiamo a raccontare il paesaggio, i luoghi, chi li anima, la loro storia: i risultati sono sempre sorprendenti, sia quando lavoriamo con gli adulti che con i bambini. Di ritorno queste storie finiscono nei nostri lavori, sia che si tratti di disegni, piccoli reportage, immagini suggestive ispirate ai luoghi e spesso anche canzoni che scrive Marina. Quello che ne sta venendo fuori è una mappa di persone e situazioni che vivono una resistenza quotidiana a ritmi e trasformazioni programmati dai centri di produzione.
L'autore non svela i suoi segreti e non spiega la sua opera, per cui non ti chiederò certo il significato simbolico della maschera che fai indossare al tuo protagonista. Leggendo il tuo fumetto, però, conoscendo di Alberico solo la maschera, ho pensato al fatto che fosse così più facile ritrovarsi dietro di essa. Se avessi deciso di tracciare le linee del suo volto il tuo eroe sarebbe, inevitabilmente, diventato una “persona”, allontanandosi dall'universalità che rende forte la sua storia. Mi chiedevo allora se l'ultima immagine con cui hai scelto di chiudere il tuo racconto, quella della maschera appesa ad un ramo con dei piccoli germogli già pronti a sbocciare, non sia forse un invito al lettore, una possibilità che tu gli mostri, una strada aperta perché chi legge, chiudendo il volume, si senta libero di indossare egli stesso quella maschera, ritrovandosi in Alberico.
Non c'è nessun segreto da tenere nascosto. Alberico indossa la maschera di un picchio nero, uccello che popola le grandi foreste selvagge. Il nome stesso del Picchio proviene da una leggenda che vede l'antico Re del Lazio Pico trasformato in uccello dalla maga Circe. Presso gli antichi popoli laziali l'intenso suono prodotto dal picchio mentre picchia sull'albero era ritenuto un segnale da interpretare. La maschera da indossare per identificarsi con il personaggio è sicuramente una lettura interessante, possiamo farlo per ri-sentirci custodi e parte stessa dello spirito selvatico che ci lega ancora alla terra che ci ha generato e che dobbiamo preservare.

L'intervista è stata pubblicata QUI.
Grazie a Giada Peterle e a Claudio Calia.

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